I quadri storti e la mente contorta.
Le velate grazie e le ciglia che si ammorbidiscono all’intrecciarsi delle labbra.
La cortesia e la speranza dell’ingiusto.
Quel saluto per strada senza nome.
La stagione delle pesche e la foto che la ricorda.
Le penne sparse e le vene aperte a respirare meglio
con lo sguardo assorto nel deserto di te stesso.
Vaghi senza fiato e senza forze dove splende meno
il fetido odore delle persone.
Dove, le fronde degli alberi piangono solitarie
e le vecchie masticano e sputano tabacco.
Le attenzioni e i malumori, i segreti e le espiazioni,
le comunioni, le sembianze dei sogni tuoi,
le anime, le sfere, i ricordi venduti alle nuove generazioni,
le scarpe rotte e le ginocchia sbucciate, le fetide amare e chiassose parole,
le mani strette attorno al tuo cazzo
le pieghe sul letto disfatto
quando solo rimani
quando fuori albeggia che la tua vita scade al tramonto,
quando tuo nonno dice che ti ama piangendo.
E ciò che conta è la tua incoscienza,
la coscienza dei folli e la scintilla dei vermi,
la codardia delle giornate passate a bersi bicchieri vuoti nel frastornante vuoto tutt’attorno,
la vita sterile vissuta come se fosse una bestemmia.
E tutto,
tutto dalla valigia vuota alla tua schiena mentre ti possiedo,
dal semaforo rosso mentre scappo via alle luci che ti tengon compagnia,
tutto
m’appare veramente inutile.