– Credo che tu abbia compreso il significato di mestizia, vero Francesco.
– Parlo con un tricheco, adesso? Sul serio?
Sul muro la mia ombra gesticolante si muove, bacchettando un ritmo blues appena sopra le ginocchia. Ondeggio in avanti e poi all’indietro. Come un tumulto spento, un piccolo fuoco artificiale inesploso che si interroga sulle infinite possibilità che il destino gli ha prefissato.
– Esploderà o resterà così, così inesploso? – dico io.
Fa il tricheco – Cosa? –
– Quel petardo perdio! –
– Farà come te – e mi punta la pinna addosso – scoppietterai in cielo ricadendo in minuscole scintille di budello mentre i bambini batteranno le mani e i denti e gli apparecchi oppure preferirai la passiva lobotomia che si pone come unica alternativa? –
Sulla calce bianca non ondeggiano che le ciglia. Battono su sé stesse e applaudono, come ai fuochi artificiali, ritti al cielo, come orgasmi biblici e cosmici, come i bum seguiti da tristi rshhhhhh.
– È che credo di non saperlo ma son quasi sicuro, sì son quasi sicuro, in cuore mio, che conferisca un tono all’ambiente. –
– Ma tu davvero ti esprimi così? Parla, demonio, parla. Cosa dà un tono all’ambiente?
Decido quindi di dirglielo, a quel tricheco – Quella cosa lì, quella roba, insomma. La mestizia.
La mestizia perdio.