La pioggia scrive parole di vernice viola
che acide colano picchiettandomi il risveglio,
acerbo e umido, sporco di aria stanca e stufa.
Le vagine parlano con tono sommesso che ti fan sentire
come batte uno strillo di una tromba nella testa.
È l’inferno che avanza verso di me,
guida con i guanti bianchi, che eleganza si dirà
ma i fari troppo alti impestano un cielo
che di merda ne ha già troppa.
A sorsate freghi Dio
che a bere non ci è buono, butta giù un altro giorno
tanto anche la sbornia passerà.
L’affetto del soffice friggere di un’aspirina nell’acqua
ti rinvigorisce come la parole di tua madre da bambino,
suona come la puntina ballare sul dorso d’un vinile
con la lingua ti fa rabbrividire.
Freddo all’inferno, col ghiaccio sgomitolarsi da dentro
per entrarsi negli occhi lucidi, aperti come gambe
dove correre per cercare l’ultimo biglietto di un tram
per poi un giorno poter tornare a casa.
Ci scorre l’eroina dentro i tubi nei muri
e si che comprende come tutto si colori di vorticose pustole
sulle quali lasciarti scivolare come fosse il dorso di un dinosauro.
Giù giù giù, dove tutto può impregnarsi di più!
Dove sei vivo anche tu, che alzi la mano laggiù!
Le cicatrici son diventate solo poster strappati sulle colonne
che sanno del tuo piscio e sai d’averlo fatto apposta.
Invita il demonio a cena e lascialo a bocca asciutta,
scarabocchia l’anima di chi rimane dietro
a godersi il tuo arrancare senza capire che quello lì è proprio il passo tuo,
ridi al funerale,
sorridi che sei come la Monna Lisa,
solo più morto,
molto più morto.